Porte sul passato - Proloco San Giovanni In Marignano

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Porte sul Passato
Una porta per accedere ad un mondo che ci appare ormai distante millenni, ma che i nostri nonni vivevano quotidianamente e affrontavano spontaneamente e in maniera diretta. Gli oggetti, le tradizioni e le superstizioni che erano alla base della civiltà contadina fino alla prima meta del secolo scorso, per non dimenticare le nostre radici, le nostre tradizioni e le nostre paure primordiali. Questa rubrica si aggiornerà bisettimanalmente e per ogni articolo sarà presentato un aneddoto sulle tradizioni, superstizioni e detti popolari romagnoli.



I Folletti Romagnoli (è mazapêgul)

I folletti o mazapêgul, nella tradizione popolare romagnola, sono sempre stati alla base delle storie e leggende raccontate ai più piccoli, ma anche considerati nell’immaginario collettivo come spiriti dispettosi e irrequieti da temere.
Anche nelle culture nordiche, compaiono i folletti o elfi: esseri molto piccoli e dispettosi, che vivono nelle folte foreste.
Nella cultura romagnola, si associa il folletto allo spirito dei bambini mai nati, che vaga in cerca di una figura materna. Spesso si sente dire che i folletti escono la notte dai mulini, nei pressi dei quali vi è un roseto. E non è affatto un caso, in quanto ci sono testimonianze tra gli anziani, che raccontano la sepoltura dei feti abortiti o neonati morti prematuramente effettuata nei
pressi di mulini e segnalata la loro presenza con piante di rosa.
Nei racconti popolari, il folletto ci viene descritto come “piccino, di pel grigio, starebbe tra il gatto e lo scimmitto, porta in capo un berrettino rosso o una berrettina d’oro. Del resto non ha vestimento di sorta e non gira che di notte. Il Mazapegul è un vero e proprio incubo: scatena all’improvviso turbini di vento capaci di far volare via quanto capiti a tiro, comprese le persone. E’ un maestro nel provocare orribili sogni, senso di soffocamento e paralisi che opprime talvolta i dormienti. Entra di notte nelle stanze leggero come il vento, gira da un mobile all’altro, finendo nel letto e lì si posiziona sopra il ventre di una bella ragazza della quale si innamora degli occhi e dei capelli e soprira: ad bëll òcc ! ad bëll cavéll ! (traduzione: che occhi belli ! che bei capelli !) e se la donna gli è affettuosamente sottomessa sarà gentile e premuroso nei suoi confronti, ma se la donna l’ha deriso la scote, la morde, la graffia, la spettina oppure le aggroviglia i lavori, le nasconde gli oggetti più disparati, le tagliuzza le vesti.
Le donne per liberarsene devono farsi vedere la sera mentre mangiano pane e formaggio e nel contempo spidocchiarsi e fare i propri bisogni. Il Mazapegul si offende talmente, non tanto per l’oltraggio subìto, quanto perché ritiene la sua protetta una persona poco pulita. Il folletto, entrando nella casa lascia sul pozzo di corte il berretto, allora basta che qualcuno si affretti al pozzo e ghermito il berrettuccio di lana rosso lo getti nell’acqua per esser salvi dai suoi dispetti e accasciato sul pozzo si lamenterà per lunghe notti: dam indrì e’ mi britin ! dam indrì e’ mi britìn ! perché privo del berretto, lo spiritello perde i suoi singolari talenti.
Il Rapporto Imprescindibile tra Luna e Campagna

L’inverno è la stagione nella quale tutto rallenta: la linfa degli alberi scorre sempre più piano, gli animali cadono in un lungo sonno, le giornate si accorciano lasciando spazio alle tenebre e il freddo avvolge tutto come una pesante coperta. Il tempo, nel calendario contadino arcaico era scandito dalle stagioni e dalle fasi lunari, che dettavano i momenti più propizi alle diverse attività agrarie della campagna. Solo in un secondo momento è stato affiancato il calendario fatto di giorni, settimane e anni così come lo conosciamo oggi.
Si credeva che la luna avesse un forte potere ed energia sulle attività agricole sin dalla notte dei tempi. Nella religione romana la dea Luna era considerata il complemento femminile del dio Sole e i romani la consideravano come una delle 12 divinità vitali per l’agricoltura, fonte della più chiara e candida luce del mondo.
Già nell’antica Roma la campagna era gestita in osservanza delle fasi lunari e, come la storia insegna, questa cultura si è tramandata nei millenni e non è stata mai rifiutata dalla chiesa cattolica, ma accettata e resa parte integrante del suo essere. Non è un caso che il giorno nel quale si festeggia la Pasqua sia calcolato utilizzando le fasi lunari: infatti la Pasqua viene celebrata la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.
Il contadino era dunque molto attento alle fasi lunari, per programmare le attività da svolgere in campagna ed avere il più soddisfacente risultato dal suo durissimo lavoro, aiutandosi con il lunario (e lunerie in dialetto).
Il lunario era un calendario a tutti gli effetti: riportava il nome del santo del giorno, le festività religiose e la fase in cui si sarebbe trovata la luna: crescente, piena, calante, eclissi, equinozio, solstizio.
Il lunario più in voga ed utilizzato tra i contadini romagnoli era senza dubbio quello degli smembar, che in dialetto significa straccioni, pubblicato per la prima volta nel 1845. Nel lunario degli smembar era inoltre presente una zirudëla (una filastrocca in rima), scritta in dialetto romagnolo ed illustrata con vignette, che riassumeva gli atti salienti dell’anno passato.
Ancora oggi il lunario degli smembar viene stampato e venduto per i nostalgici di altri tempi, nei quali si aveva un forte rapporto con la natura, come un cordone ombelicale che legava uomini e campagna in un rapporto imprescindibile di rispetto
La Caveja (La famiglia contadina, lavoro, tradizioni, usanze e credenze)

Oltre ad essere un indispensabile utensile per il lavoro nei campi, la caveja era considerata come un oggetto magico-religioso carico di superstizioni e riti ad esso legati.
Veniva utilizzata per fissare il giogo al timone del biroccio (carro da lavoro), per impedire che quest’ultimo scivolasse in avanti in tratti di strada in pendenza.
Le caveje più pregiate e riccamente lavorate venivano ostentate in occasione di festività religiose, processioni, matrimoni e manifestazioni folkloristiche, ma venivano anche utilizzate a scopi propiziatori o durante specifici rituali.
Il suo cristallino tintinnio prodotto dagli anelli (la caveja “cantarena” o “campanera”) riecheggiava nelle campagne portando con sé antichi riti, usanze e credenze pagane vecchie di millenni. Il suono metallico prodotto da oggetti con un certo valore simbolico, era ritenuto un efficace mezzo per allontanare gli spiriti maligni e portare pace e prosperità.
La potenza della caveja era ritenuta talmente forte che il giovedì santo i suoi anelli venivano legati, per poi essere liberati il sabato santo: esattamente come avviene per le campane delle chiese. Quindi è possibile dedurre che anche il suono delle campane sia un retaggio delle stesse credenze che aleggiavano sui poteri della caveja. Si narra che in un paese non meglio identificato fosse stata usata per un periodo in sostituzione della campana della chiesa non funzionante.
Questo magico oggetto era considerato come un talismano in grado di scongiurare l’arrivo di un brutto temporale, salvaguardare il raccolto, predire il sesso del nascituro, liberare un malcapitato da una “fattura”, usato a fini propiziatori nella casa dei neo sposi per augurargli amore e prosperità.caveja
Prevedere il sesso del nascituro: in questo caso dopo aver fatto sedere su una sedia la gestante, la donna più anziana della casa, l’azdôra, faceva il segno della croce con una caveja e le girava intorno 3 volte; appoggiava poi la caveja a una base, accendeva una candela alle sue spalle e attendeva la risposta. Qualora si fossero fermati per primi gli anelli di sinistra si prevedeva che il bambino sarebbe stato un maschio, se si fermavano prima quelli di destra una femmina. Se tutti gli anelli si fossero arrestati contemporaneamente, un evento molto raro, ci si attendeva un aborto (Bocchini 1977).
Per predire il tempo la caveja veniva portata di sera sull’aia e fatta suonare. A seconda del suono emesso e della intensità a cui questo era udibile in distanza, se ne traevano auspici per il giorno successivo.

La Malattia e i Riti Magici

Un tempo non molto lontano, ammalarsi era una disgrazia e in mancanza di medicinali e conoscenze mediche, si cercavano delle spiegazioni nei sortilegi e nei riti magici fatti nei confronti del malcapitato che si era ammalato.

Oggi queste pratiche ci fanno sorridere, ma la popolazione di un tempo era fortemente influenzata dalla credenza di riti capaci di provocare la malattia e la morte di qualcuno.

Se si ammalava qualcuno nella famiglia a causa di un maleficio si era soliti, a notte inoltrata e sul confine della proprietà, far bollire in un paiolo le pezze, la camicia, il vestito e la coperta dell’ammalato. Quando l’acqua iniziava a gorgogliare si frugava nel paiolo con un forcone per far apparire l’ammaliatrice e liberare così l’ammaliato. Non è un caso che i termini ammalato e ammaliato sano molto simili… Questa usanza potrebbe essere connessa all’involontaria pratica di disinfettare gli abiti dai germi e parassiti che vi si annidano.

Per fugare ogni dubbio, inoltre, si disfava il cuscino dell’ammalato e se vi si trovavano le penne intrecciate a formare corone, croci o altre figure riconducibili alla morte, allora la stregoneria era confermata. Trovare nel cuscino o nel materasso altri oggetti come ossa, capelli, forbici ecc. era simbolo di fattura. Tutto quello che si trovava doveva essere bruciato in un angolo ai confini del podere di famiglia e pronunciando formule magiche per allontanare il demonio. Spesso le formule magiche erano formule religiose con alcune varianti sul tema

Metodi simili venivano utilizzati anche quando un animale del contadino si ammalava e il sospetto cadeva su una possibile malia, cioè bollitura di funi coperte o altro utilizzato per l’animale. Se ad ammalarsi però era un maiale il modo per guarirlo era più che mai particolare: si tagliava un pezzetto di coda e di orecchio al povero animale e li si faceva bollire in un caldaio, poi si rimescolava con una forca e si gettava quell’acqua nel porcile. In tal modo si riteneva l’animale guarito


UNA STREGONERIA PARTICOLARE: L’ORMA TAGLIATA

L’ ammaliatore seguiva la vittima per strada e levava tanta terra quanta ne conteneva l’orma che la vittima stessa lasciava. Poi metteva la terra in un sacchetto e lo poneva sotto il camino o sotto una trave della propria casa. La vittima subito si ammalava e cominciava a deperire. A questo punto era necessario far intervenire un individuo che possedeva la virtù di sciogliere i sortilegi: un uomo nato con “la camicia”. Nascere con la camicia significa venire alla luce con il sacco amniotico aderente alla pelle. Si credeve che chiunque nascesse con questa peculiarità, avrebbe avuto per tutta la vita poteri fuori dal comune. Per tre mattine consecutive il personaggio nato con la camicia faceva mettere all’amaliato il piede nella sabbia o nella cenere, quella che rimaneva attaccata al piede veniva messa in un sacchetto, che poi andava a gettare nel fiume. Se il sacchetto fosse caduto nell’acqua senza fare rumore, allora l’ammalato sarebbe guarito; se invece si fosse sentito il fragore, l’ammalato non avrebbe avuto scampo dalla malattia.

Se l’ammaliatore aveva gettato nel fuoco il sacchetto con la terra raccolta dall’orma, la morte della vittima era certa.



La Notte di San Giovanni


Le celebrazioni di San Giovanni Battista (24 giugno) dovevano sostituire, all’interno dei riti cristiani, i precedenti riti pagani legati al solstizio d’estate.
Un’antica credenza recita che nella notte del solstizio avviene il matrimonio tra il sole e la luna e che questo sposalizio scatena una cascata di benefici influssi sulla terra. La rugiada della notte di San Giovanni era ritenuta carica di virtù straordinarie perché la si credeva affine all’acqua che il santo aveva usato per battezzare. Quindi pagano e cristiano nella cultura contadina si mescolavano e si confondevano.

Le Erbe di San Giovanni
Erbe e fiori sono sempre state utilizzati nella storia dell’umanità per le pratiche della medicina. Manipolando piante e altri ingredienti naturali come le pietre e i minerali, si credeva di influire e modificare l’ordine naturale delle cose. Tutto ciò si può leggere anche negli atti dei processi di stregoneria istituiti dall’Inquisizione nei confronti soprattutto di donne, le quali si credeva fossero in grado di manipolare erbe quali belladonna, mandragora, stramonio, papavero, per ottenere filtri e pozioni dagli effetti strabilianti che potessero ridare salute, ricchezza, amore, fortuna. Tali pozioni erano in grado anche di provocare euforia, visioni situazioni magiche.

Ma per ottenere il massimo effetto dalle erbe era necessario raccoglierle in particolari periodi dell’anno quando le influenze astrali si facevano sentire in maniera particolare. La notte magica per eccellenza era considerata appunto la notte di San Giovanni.


La Mandragola

Alla mandragora venivano nel Medioevo attribuite qualità magiche e non è un caso se era inclusa nella preparazione di varie pozioni.[1] È raffigurata in alcuni testi di alchimia con le sembianze di un uomo o un bambino, per l’aspetto antropomorfo che assume la sua radice in primavera.[1]

Da ciò ne è derivata la leggenda del pianto della mandragola ritenuto in grado di uccidere un uomo e per questo, come ricorda Machiavelli nell’omonima sua commedia, il metodo più sicuro per coglierla era legarla al guinzaglio di un cane e quindi lasciarlo libero di modo che, tirando la corda, questi avrebbe sradicato la mandragola udendone il lamento straziante e morendo all’istante, consentendo così al proprietario di coglierla.

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